Come ebbi occasione di raccontare in un
numero di FloatingPoint ormai introvabile, sono giunto
all'informatica tramite il più nobile dei sentieri. Non per isolarmi
in un mondo virtuale di regole rassicuranti, né per uscire dal
vicolo cieco di una professione mal digerita, ma vi fui portato dalla
madre nobile di ogni conoscenza: la meccanica (intendo quella sporca
di grasso, non quella degli ingegneri). L'uomo infatti è faber e non
digitans.
Siamo alla fine degli anni sessanta in
piena, non condivisa e tutt'ora incompresa, contestazione. Avevo
appena finito di costruire un telescopio riflettore newtoniano
equatoriale di 36 cm di diametro, 0.36 metri si direbbe oggi, ottica
Marcon, completamente elettro-comandato. Pesava 7000 Newton, si
direbbe oggi. Posizionarlo non era difficile in quanto la posizione
(ascensione retta e declinazione) erano riportati su due quadranti
che indicavano le rotazioni rilevate da due “Selsyn”.
Avevo trovato anche un orologio da
sottomarino che aveva un quadrante con 24 ore il quale, un poco
modificato per ritardare di 3 minuti e rotti, segnava l'ora siderale.
Però il mio desiderio era di poter rilevare l'immagine con un
sensore e riportarla al calduccio su uno schermo. Infatti la specola
pionieristicamente realizzata in resina e fibra di vetro era gelida.
Gli amici sostenevano che avessi fatto tutto quell'ambaradam invece
di fare la collezione di farfalle. Ma solo una pinguina sarebbe
venuta a vedere quelle gelide farfalle notturne. L'operazione delle
immagini al calduccio del caminetto non mi riuscì per i costi
elevatissimi. Allora i sensori più sensibili dovevano essere
raffreddati ad azoto liquido. Però l'idea di poter pilotare il
telescopio per via elettronica mi affascinava e mi avvicinai così al
mondo degli elaboratori elettronici come sistema APPLICATIVO e non
virtuale ed onanistico. Costruii un addizionatore BCD (binary coded
decimal) a transistor. Volendo realizzare un calcolatore “parallelo”
(non nel significato di oggi) il mio addizionatore richiedeva un
circuito per ogni cifra decimale. Ne realizzai uno solo.
Sostanzialmente eseguiva 7 + 5 = 2 e si accendeva una lampadina
rigorosamente dell'albero di Natale per indicare il riporto. Non ce
l'avrei fatta mai ad avere almeno 8 cifre. Vennero fuori proprio in
quegli anni i circuiti integrati che in un solo chip avevano 4 porte
'and' oppure 'or' o 'nor'. Per l'addizionatore servivano 8 integrati
che allora costavano circa 1000 lire l'uno. Mi impiegai come
correttore di bozze alla Guida Monaci. Lo stipendio andava tutto in
chip, pellicole per serigrafare i circuiti stampati e via dicendo.
Avevo investito quasi un anno di lavoro e di stipendi che uscì il
primo microchip che integrava l'unità logica in un solo componente.
Mi avvilii un po'. Costava meno del mio anno di lavoro e funzionava
decisamente meglio. Però, nel frattempo, avevo studiato analisi
numerica e mi ero appassionato. Non so perché mi affascinasse tanto,
ma trasformare il calcolo analitico così pieno di astuzie,
limitazioni e trucchetti in un metodo numerico mi affascinava. Mi
dava un'idea di potenza, eterna aspirazione maschile. Per questo oggi
sostengo a ragione e con quarantennale esperienza che la meccanica
computazionale è una branca dell'informatica e non della meccanica.
Se ci si scontra con gli errori di troncamento e di arrotondamento di
una aritmetica finita a pochi bit, come avveniva soprattutto agli
esordi, poi, se si fa un programma che tratti numeri, ci si va con i
piedi di piombo e non semplicemente trascrivendo formule buone per il
calcolo analitico o manuale.
Lunghissima premessa concessa al mio
ego per dire che, invocato l'aiuto di san Cassiano, protettore dei
dattilografi ed, ahimè, degli informatici, di san Guglielmo, patrono
degli ingegneri, di san Benedetto da Norcia, patrono degli
architetti, di sant' Alberto Magno, protettore degli scienziati e
quindi dei matematici, ho messo a punto un elemento finito per
l'analisi delle murature che, santa Barbara permettendo, mi pare una
“bomba”.
L'ho realizzato nei ritagli di tempo
per pura passione non ritenendo di poterne ricavare alcun beneficio
materiale se non gloria imperitura e soprattutto personale
soddisfazione.
Poiché non amo chi si prende troppo
sul serio, ve lo racconterò con la passionalità che si può avere
per i motori a scoppio (atri direbbero combustione interna) e non con
la fiera albagia dei simboli paranoici della teoria dei tensori:
ijklmn, che pure ovviamente inzuppo nel cappuccino ogni mattina.
Eccoci...
La muratura non resiste a trazione. Gli
elementi no-tension hanno il brutto viziaccio di essere dipendenti
dalla fittezza della mesh. Quindi il mio (nostro) elemento impiega un
metodo secondo il quale si ha una fessurazione distribuita, avvenuta
la quale, gli sforzi si sviluppano nel sistema della fessurazione.
Ed
una...
La muratura in compressione ha un
comportamento elasto-plastico. Non basta che l'elemento sia
no-tension. Prendiamo il criterio plastico di Druker-Prager,
modifichiamolo alla bisogna, implementiamo un efficiente algoritmo di
ritorno e complichiamoci la via facendolo convivere con il regime
fessurato.
E due...
La muratura ha il viziaccio di avere un
comportamento non isotropo ma anisotropo. Brutta bestia davvero
l'anisotropia. Bene implementiamo il criterio di Druker-Pragher per
materiale anisotropo.
E tre...
Basta? Non ci basta. Un simpatico
signore, un certo Eshelby, si inventa un tensore (questa volta non
posso evitare il termine) per omogeneizzare le caratteristiche di un
aggregato di elementi ellissoidali. Lo si può modificare per la
muratura. A che serve? Per avere una più rigorosa valutazione delle
caratteristiche meccaniche della muratura partendo dalle
caratteristiche geometriche e meccaniche dei componenti (mattoni e
ricorsi di malta) che sono più facilmente valutabili.
E quattro...
Basta? No. Ho dimenticato di dire che
il regime di cui sto parlando è di sforzo piano. Ma se immergiamo
una membrana in uno spazio tridimensionale oltre a trascurare la
rigidezza fuori piano (cosa che per la muratura è lecita, anzi
salutare) avremmo la grande seccatura di dover vincolare i gradi di
libertà privi di rigidezza. Quindi accoppiamo un regime flessionale
a quello membranale.
E cinque...
Ma non basta. Non è salutare che le
pareti in muratura, se si connettono formando uno spigolo, siano
connesse con la possibilità di trasmettere sforzi flessionali, cosa
che comunemente avverrebbe condividendo gli stessi nodi di spigolo,
quindi diamo la possibilità di svincolare i gradi di libertà di
bordo.
E sei...
Ma non ci accontentiamo. Il nostro
materiale no-tension, elasto-plastico, anisotropo a regime di sforzo
piano, lo infiliamo ANCHE in un guscio “degenere” a strati. Con
questo abbiamo fatto sette che è un bel numero, anche apocalittico.
Con questa meraviglia che ci facciamo?
Alcuni di voi ci analizzerebbero elementi murari complessi, altri ci
analizzerebbero una villetta monopiano con la fantasmagorica e
panaceutica “pushover”, magari lamentando una certa lentezza, una
non convergenza, asserendo che altri sono più bravi. Quindi
l'elemento me lo tengo per me.... ma si sappia che ce l'ho...
Arch. Roberto Spagnuolo, Amministratore Unico, Softing Srl