lunedì 28 gennaio 2013

La bomba

Come ebbi occasione di raccontare in un numero di FloatingPoint ormai introvabile, sono giunto all'informatica tramite il più nobile dei sentieri. Non per isolarmi in un mondo virtuale di regole rassicuranti, né per uscire dal vicolo cieco di una professione mal digerita, ma vi fui portato dalla madre nobile di ogni conoscenza: la meccanica (intendo quella sporca di grasso, non quella degli ingegneri). L'uomo infatti è faber e non digitans.


Siamo alla fine degli anni sessanta in piena, non condivisa e tutt'ora incompresa, contestazione. Avevo appena finito di costruire un telescopio riflettore newtoniano equatoriale di 36 cm di diametro, 0.36 metri si direbbe oggi, ottica Marcon, completamente elettro-comandato. Pesava 7000 Newton, si direbbe oggi. Posizionarlo non era difficile in quanto la posizione (ascensione retta e declinazione) erano riportati su due quadranti che indicavano le rotazioni rilevate da due “Selsyn”.

Avevo trovato anche un orologio da sottomarino che aveva un quadrante con 24 ore il quale, un poco modificato per ritardare di 3 minuti e rotti, segnava l'ora siderale. Però il mio desiderio era di poter rilevare l'immagine con un sensore e riportarla al calduccio su uno schermo. Infatti la specola pionieristicamente realizzata in resina e fibra di vetro era gelida. Gli amici sostenevano che avessi fatto tutto quell'ambaradam invece di fare la collezione di farfalle. Ma solo una pinguina sarebbe venuta a vedere quelle gelide farfalle notturne. L'operazione delle immagini al calduccio del caminetto non mi riuscì per i costi elevatissimi. Allora i sensori più sensibili dovevano essere raffreddati ad azoto liquido. Però l'idea di poter pilotare il telescopio per via elettronica mi affascinava e mi avvicinai così al mondo degli elaboratori elettronici come sistema APPLICATIVO e non virtuale ed onanistico. Costruii un addizionatore BCD (binary coded decimal) a transistor. Volendo realizzare un calcolatore “parallelo” (non nel significato di oggi) il mio addizionatore richiedeva un circuito per ogni cifra decimale. Ne realizzai uno solo. Sostanzialmente eseguiva 7 + 5 = 2 e si accendeva una lampadina rigorosamente dell'albero di Natale per indicare il riporto. Non ce l'avrei fatta mai ad avere almeno 8 cifre. Vennero fuori proprio in quegli anni i circuiti integrati che in un solo chip avevano 4 porte 'and' oppure 'or' o 'nor'. Per l'addizionatore servivano 8 integrati che allora costavano circa 1000 lire l'uno. Mi impiegai come correttore di bozze alla Guida Monaci. Lo stipendio andava tutto in chip, pellicole per serigrafare i circuiti stampati e via dicendo. Avevo investito quasi un anno di lavoro e di stipendi che uscì il primo microchip che integrava l'unità logica in un solo componente. Mi avvilii un po'. Costava meno del mio anno di lavoro e funzionava decisamente meglio. Però, nel frattempo, avevo studiato analisi numerica e mi ero appassionato. Non so perché mi affascinasse tanto, ma trasformare il calcolo analitico così pieno di astuzie, limitazioni e trucchetti in un metodo numerico mi affascinava. Mi dava un'idea di potenza, eterna aspirazione maschile. Per questo oggi sostengo a ragione e con quarantennale esperienza che la meccanica computazionale è una branca dell'informatica e non della meccanica. Se ci si scontra con gli errori di troncamento e di arrotondamento di una aritmetica finita a pochi bit, come avveniva soprattutto agli esordi, poi, se si fa un programma che tratti numeri, ci si va con i piedi di piombo e non semplicemente trascrivendo formule buone per il calcolo analitico o manuale.

Lunghissima premessa concessa al mio ego per dire che, invocato l'aiuto di san Cassiano, protettore dei dattilografi ed, ahimè, degli informatici, di san Guglielmo, patrono degli ingegneri, di san Benedetto da Norcia, patrono degli architetti, di sant' Alberto Magno, protettore degli scienziati e quindi dei matematici, ho messo a punto un elemento finito per l'analisi delle murature che, santa Barbara permettendo, mi pare una “bomba”.

L'ho realizzato nei ritagli di tempo per pura passione non ritenendo di poterne ricavare alcun beneficio materiale se non gloria imperitura e soprattutto personale soddisfazione.

Poiché non amo chi si prende troppo sul serio, ve lo racconterò con la passionalità che si può avere per i motori a scoppio (atri direbbero combustione interna) e non con la fiera albagia dei simboli paranoici della teoria dei tensori: ijklmn, che pure ovviamente inzuppo nel cappuccino ogni mattina.
Eccoci...

La muratura non resiste a trazione. Gli elementi no-tension hanno il brutto viziaccio di essere dipendenti dalla fittezza della mesh. Quindi il mio (nostro) elemento impiega un metodo secondo il quale si ha una fessurazione distribuita, avvenuta la quale, gli sforzi si sviluppano nel sistema della fessurazione.
Ed una...

La muratura in compressione ha un comportamento elasto-plastico. Non basta che l'elemento sia no-tension. Prendiamo il criterio plastico di Druker-Prager, modifichiamolo alla bisogna, implementiamo un efficiente algoritmo di ritorno e complichiamoci la via facendolo convivere con il regime fessurato.
E due...

La muratura ha il viziaccio di avere un comportamento non isotropo ma anisotropo. Brutta bestia davvero l'anisotropia. Bene implementiamo il criterio di Druker-Pragher per materiale anisotropo.
E tre...

Basta? Non ci basta. Un simpatico signore, un certo Eshelby, si inventa un tensore (questa volta non posso evitare il termine) per omogeneizzare le caratteristiche di un aggregato di elementi ellissoidali. Lo si può modificare per la muratura. A che serve? Per avere una più rigorosa valutazione delle caratteristiche meccaniche della muratura partendo dalle caratteristiche geometriche e meccaniche dei componenti (mattoni e ricorsi di malta) che sono più facilmente valutabili.
E quattro...

Basta? No. Ho dimenticato di dire che il regime di cui sto parlando è di sforzo piano. Ma se immergiamo una membrana in uno spazio tridimensionale oltre a trascurare la rigidezza fuori piano (cosa che per la muratura è lecita, anzi salutare) avremmo la grande seccatura di dover vincolare i gradi di libertà privi di rigidezza. Quindi accoppiamo un regime flessionale a quello membranale.
E cinque...

Ma non basta. Non è salutare che le pareti in muratura, se si connettono formando uno spigolo, siano connesse con la possibilità di trasmettere sforzi flessionali, cosa che comunemente avverrebbe condividendo gli stessi nodi di spigolo, quindi diamo la possibilità di svincolare i gradi di libertà di bordo.
E sei...

Ma non ci accontentiamo. Il nostro materiale no-tension, elasto-plastico, anisotropo a regime di sforzo piano, lo infiliamo ANCHE in un guscio “degenere” a strati. Con questo abbiamo fatto sette che è un bel numero, anche apocalittico.

Con questa meraviglia che ci facciamo? Alcuni di voi ci analizzerebbero elementi murari complessi, altri ci analizzerebbero una villetta monopiano con la fantasmagorica e panaceutica “pushover”, magari lamentando una certa lentezza, una non convergenza, asserendo che altri sono più bravi. Quindi l'elemento me lo tengo per me.... ma si sappia che ce l'ho... 

Arch. Roberto Spagnuolo, Amministratore Unico, Softing Srl